Women Up, le donne alla conquista della Gnam

The National Gallery of Modern Art (GNAM) reopened during Phase Two of coronavirus lockdown in Rome, Italy, 19 May 2020. ANSA/RICCARDO ANTIMIANI
- Pubblicità -
Acea Energia - Luce e Gas - Offerta riservata per i clienti del Mercato Tutelato

“Mi sai dire il nome di un’artista donna?”. “Una donna? Io sono negata con i nomi”. Oppure, “Posso chiamare un momento un amico che se ne intende?”. O anche: “Mia madre! Mia madre è un’artista: ha fatto me, che sono un’opera d’arte”. Si sorride, ma fanno riflettere le risposte, tra il serio e il faceto, date per le strade di Roma a “Women Up”, progetto della Galleria Nazionale d’arte Moderna e Contemporanea che dall’arrivo della direttrice Cristiana Collu ha fortemente (o forse finalmente) puntato l’obbiettivo sulle donne e la loro presenza nel mondo dell’arte. Women Up ribalta l’espressione inglese “woman up” e sbriciola lo stereotipo sotteso dall’invito a “comportarsi da donna”, allargando a dismisura le prospettive.
Una corsa a ostacoli “necessaria” che attraverso progetti, mostre, eventi, opere, call, voci, video e dati, sottolinea la centralità dello sguardo delle donne e dell’indagine sul femminismo, invitando tutte ad alzare il volume della propria voce. E a farsi sentire.
A scattare una fotografia del “reale” sono i numeri. Nel 2020 è stata condotta una ricerca sulle artiste della Galleria Nazionale: 251 in collezione, il 10% del totale, con 517 opere e 26 paesi di provenienza. Fino al 2014 si acquistavano solo tre opere di donne ogni anno. Dal 2015, anno dell’arrivo della Collu, a oggi sono diventate 16 l’anno. Il 20% è entrato in collezione e nel 2019 le opere di artiste sono diventate il 30% del totale delle acquisizioni. Time is Out of Joint, la mostra-allestimento della collezione permanente, nel suo attuale assetto espone 17 artiste, il 10% del totale, e accanto alle 27 opere un’etichetta evidenzia in giallo il “Made by a woman artist”, ovvero l’essere realizzata da mano femminile. Dal 2016 ad oggi, una mostra personale su 4 è dedicata a una donna e nelle collettive la presenza femminile media è del 25%. Si tratta di progetti come Museum Beauty Contest (2016), la chiamata a raccolta di artiste e donne contro la depenalizzazione della violenza domestica in Russia (2017), la mostra Corpo a corpo | Body To Body (2017) fino al recente racconto dedicato a due galleriste come Mara Coccia e Daniela Ferraria.
Ma la strada è lunga e si prosegue, a ottobre, con l’inserimento in Time is Out of Joint di un altro significativo numero di opere di artiste dalle collezioni della Galleria, preceduto da una campagna diagnostica e di restauri. Negli stessi giorni, nel Salone Centrale debutterà anche la personale dell’architetta spagnola Izaskun Chinchilla, con la sua elaborazione del concetto della sfera armillare, modello medievale del cosmo composto da una sfera ad anelli concentrici usato per insegnare il movimento delle stelle. Dalla sfera intima a quella pubblica e sociale, il progetto cerca di creare un luogo fisico associato ai problemi che stanno cambiando il mondo in cui vogliono vivere le donne. A dicembre si completerà invece la trilogia sul pensiero della scrittrice, critica d’arte e femminista Carla Lonzi, con una open call dai titolo Vai pure che rimanda alla registrazione del dialogo tra la Lonzi e l’artista Pietro Consagra che porterà alla fine della loro relazione sentimentale (l’Archivio Carla Lonzi, acquisito nel 2018, è intanto in corso di digitalizzazione grazie a Google Arts & Culture e sarà presto disponibile a tutti online).
Infine, a marzo 2021, è in arrivo Io dico Io – I say I, la grande mostra a cura di Cecilia Canziani, Lara Conte e Paola Ugolini che riunisce oltre 40 artiste italiane di generazioni diverse che in differenti contesti storici e sociali hanno raccontato la propria avventura dell’autenticità, restituendo attraverso una costellazione di visioni il proprio modo di abitare il mondo. Concepita prima della pandemia, si arricchisce ora dei video vincitori della call Taci. Anzi, parla